“Ciao bimbo mio, dove sei? È una vita che ti aspettiamo… Ti abbiamo cercato in lungo e in largo, in ogni angolo del nostro cuore, e poi piano piano anche fuori, in ogni anfratto del mondo. Ti abbiamo pensato, immaginato, ti abbiamo già creato una culla comoda e calda dentro di noi, e la nostra testa, ormai, parla troppo spesso solo e soltanto di te, che ancora non arrivi.

Come mai non ci sei, bimbo mio? Non ti piacciamo come genitori? Non siamo adatti? Siamo noi ad essere sbagliati, vero? I medici, nel tempo, non ci hanno dato più tante speranze, se non quelle da riporre solo ed esclusivamente in loro.
È dura pensare che non funzioniamo. Ogni tanto mi chiedo se, forse, non me lo merito, se il fatto di non riuscire ad averti qui con me, significhi semplicemente che non andiamo bene, per essere una mamma e per essere un papà. Per essere la tua mamma e il tuo papà.
Ma poi scaccio il pensiero, e mi soffermo su tutto l’amore che ho da darti. E allora torno a farmi torturare, a farmi bucare, toccare, analizzare, a prendere pasticche, pensando che è tanto dura, ma tutto vale se è per avere tra le braccia te.
Sai, bimbo mio, tutto è cominciato come un gioco: ci siamo detti “facciamo un figlio”, sembrava giunto il momento giusto. Era divertente, entusiasmante.
Guardavamo le altre coppie intorno, guardavamo i passeggini per strada, sorridevamo sommessi e già immaginavamo quando sarebbe toccato a noi.
I mesi passavano, ma non volevamo certo metterti fretta. Tutti ci dicevano che ci può volere un po’, insomma, sì è una cosa naturale, ma mica detto fatto.
Abbiamo fatto fruttare questo tempo di attesa, imparando a capire meglio il meccanismo, perché sai, pensavamo di stare sbagliando qualcosa. E così il nostro vocabolario (e la nostra quotidianità) si è arricchito di parole strane, a molti sconosciute: stick, t.b.¹, rapporti mirati. E ancora p.m.², p.o.³, calcoli e conteggi di giorni e probabilità.
Ma nonostante tutto, tu non arrivavi. E sembrava un viaggio senza fine, anzi con una fine ben precisa: ogni mese, con l’arrivo del ciclo, una speranza in meno, una preoccupazione in più.
E piano piano, tutto questo, non era più così divertente, né così entusiasmante, sembrava piuttosto una piccola grande battaglia.
E, voglio essere sincera bimbo mio, in certi giorni era così faticoso, che abbiamo pensato di arrenderci. Perdonaci, bimbo mio, ma questa strada è davvero in salita.
Ma poi siamo sempre ripartiti, cercando più risposte, più modi, più possibilità. Abbiamo cominciato infiniti pellegrinaggi da dottori di tutti i tipi, alcuni più ottimisti, altri più disfattisti, alcuni più umani, altri più crudi e diretti. Abbiamo incassato tutti i verdetti, abbiamo fatto tutti gli esami, abbiamo cercato di capire, abbiamo seguito alla lettera consigli e indicazioni, ci siamo fatti frugare dentro e fuori, a partire dalle nostre emozioni e dalle nostre speranze.
E, mano a mano, guardare le coppie intorno e i passeggini per strada, si fa sempre più duro, sempre più avvilente.
Ma sai, bimbo mio, tanta gente non lo sa, non capisce. E ci chiedono “e voi quando lo fate un figlio?”. “Tic tac, tic tac, il tempo scorre”, ci ricordano. E non si accorgono del lampo di dolore nei nostri occhi. E noi, rassegnati, sfoderiamo un sorriso difficile da sostenere e diciamo semplicemente “arriverà”, un po’ mossi dalla stanchezza di spiegare ancora e ancora quanto sia complesso, un po’ mossi dalla vergogna di non funzionare bene come tutti gli altri.
E si va avanti, con una domanda in più ogni giorno, con un dubbio in più ogni giorno, con tanta fatica e sempre meno speranze.
Ma tu, bimbo mio, arriverai mai?”
L’essere mamma, l’essere papà, il diventare genitori, è una cosa che si dà per scontata; “è naturale”, si pensa, “è ovvio, quasi automatico”: bastano due persone, un uomo e una donna, un po’ d’amore (e a volte non serve nemmeno quello), la voglia di farlo e il gioco è fatto. In quattro e quattr’otto sotto i vestiti di quella bella ragazza ecco spuntare un bel pancione, e da due, semplicemente, si diventa tre.
Peccato che non sia sempre così semplice. Peccato che a volte la natura si impigrisca, si perda, si dimentichi come si fa, e lasci lì due persone, inermi, stanche e senza più parole, a cercare e ricercare e ricercare ancora un figlio che tanto non arriva.
E ogni tanto, dopo tanti tentativi, arriva e poi vola via in un attimo. Oltre il danno, la beffa.
È un percorso difficile, pesante, svilente, deumanizzante, che fa sentire sbagliati, soli, diversi, incompresi e incomprensibili. Il proprio corpo che tradisce, ancora e ancora; quello del proprio partner che non collabora, ancora e ancora.
E monta la rabbia, verso di sé che non si riesce, verso l’altro che non aiuta, verso il mondo che non vede.
E cresce la vergogna, perché tutti sì e noi no, perché non si funziona, non si è “normali”.
E andare avanti è sempre più difficile e impegnativo. Si rischia di chiudersi dentro quel desiderio, lasciando fuori tutto il resto, compresa la possibilità di stare bene e, in primis, di “perdonarsi” e di sentirsi comunque adeguati.
Forse sarebbe più facile se, semplicemente, gli altri intorno cercassero di capire un po’ di più, aprissero le orecchie e non la bocca, allargassero le braccia per un abbraccio che sostiene e non per una pacca sulla spalla che atterra e sotterra ancora di più.
La difficoltà di concepire, legata o meno a una condizione di infertilità conclamata, è una realtà più ampia di quanto si pensi, e sicuramente più di quanto non si percepisca, perché è sommersa da un muro di silenzio, di disagio e di imbarazzo.
La prossima volta che pensiamo di chiedere a qualcuno “e voi un figlio quando lo fate?”, pensiamoci, aguzziamo la vista, concentriamo l’udito e cerchiamo di capire quanto male possiamo fare.
Dott.ssa Giulia Schena
Note:
1: temperatura basale
2: post mestruazione
3: post ovulazione